Dipendenza affettiva e terapia d’intervento

Nel seguente video presentiamo il caso di Sara, una ragazza di 23 anni, fidanzata, e che a breve inizierà un nuovo lavoro. Questa ragazza arriva in consultazione per sintomi ansiosi, umore un po’ depresso e un vago senso di insicurezza generale.
Sara presenta alcune caratteristiche che rendono ipotizzabile una forma di dipendenza affettiva:
– Chiede continuamente consigli
– Ha sempre bisogno di rassicurazioni
– Non sa bene come comportarsi se non c’è qualcuno che le dica cosa fare.

Solitamente chi soffre di dipendenza affettiva prova paura e ansia nelle seguenti situazioni:
– Novità (es: un nuovo lavoro, un viaggio, …)
– Esprimere una propria opinione (a costo di inimicarsi qualcuno)
– Allontanamento di persone vicine
– Momenti quotidiani in cui ci sono decisioni da prendere

Ma capita a tutti di chiedere consiglio agli amici o ai familiari, non è vero? A tutti piace sentire anche la vicinanza degli amici e del partner!
Il problema di Sara però è che nonostante la vicinanza degli amici prova lo stesso ansia,tristezza e ha timore per il futuro. Come se non bastasse, i consigli delle persone a lei care non sembrano avere effetti positivi … è come se a Sara non bastassero, anzi la fanno sentire più insicura e confusa.

Lo scopo di Sara è quello di star bene: chiede consigli e aiuti per essere in grado di essere autonoma.

Ma c’è un effetto boomerang: Sara chiede aiuto continuamente per sentirsi sicura, ma si sente ancora più insicura perché chiede aiuto e gli altri quindi la fanno sentire inadeguata . E da questa inadeguatezza nascono l’ ansia e tristezza.

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Come uscire dal circolo vizioso?

Sperimentare sotto trattamento ipnotico altre modalità personali di comportamento fino a che la persona stessa non troverà il modo che più le si confà. In questo modo ci sarà un riapprendimento neurologico .

Dopo le sedute Sara sperimenterà quindi nuove possibilità di azione nel mondo . certamente chiederà consigli e vicinanza alle persone vicine, chi non lo fa? Non siamo isole. Ma a differenza di prima Sara sentirà di poter avere molta più fiducia nelle sue idee e nelle sue sensazioni.

Dott. Matteo De Tomi


Depressione maggiore: perché una terapia integrata?

Per una terapia integrata della depressione maggiore

Tutti noi abbiamo avuto l’esperienza di qualche sintomo depressivo: ci si sente tristi, più stanchi, abbiamo poca voglia di fare, si preferisce il letto ad ogni cosa anche più piacevole … .
Quando abbiamo dei sintomi depressivi ne risente non solo la mente ma anche il corpo (stanchezza, problemi del sonno, perdita o aumento dell’appetito). Qualche momento depressivo è normale, ma quando la situazione dura per troppo tempo e diventa invalidante allora il ricorso ad uno psicoterapeuta esperto può fare la differenza.

Esistono vari tipi di depressione, propongo qui l’elenco dei sintomi più frequenti della depressione maggiore secondo il Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali:

1) Umore depresso (ma anche accessi di rabbia o frustrazione). Nei bambini e adolescenti può esserci aumento irritabilità
2) Diminuito interesse o piacere per tutte, o quasi, le attività
3) Perdita o aumento significativi del peso o dell’appettito
4) Insonnia o ipersonnia
5) Rallentamento o agitazione psicomotoria
6) Affaticamento o perdita di energia
7) Sentimenti di autosvalutazione o di colpa eccessivi
8) Diminuita capacità di concentrarsi, indecisione
9) Pensieri di morte
In questo articolo voglio analizzare e sottolineare l’importanza di una terapia integrata nei casi di gravi depressione: ovvero di una depressione maggiore, o di una depressione che si ripete varie volte a distanza di anni (depressione ricorrente). Parlando di terapia integrata intendo la coordinazione tra:

1) Terapia farmacologica
2) Psicoterapia individuale
3) Colloquio familiare/di coppia
Perché il colloquio familiare?

Quando prendo in carico una persona sofferente di depressione da molto tempo sono solito convocare anche le persone con cui vive (familiari, partner, figli) al fine di informare la famiglia su cos’è oggettivamente la depressione.
Mi capita varie volte durante i primi colloqui di indagare con i familiari la loro idea del problema e mi riferiscono che non sanno esattamente cosa sia la depressione. Certo, sappiamo tutti cosa fa una persona tipicamente depressa (cerca di stare a letto il più possibile, appare triste, demotivato, mangia meno, …), ma molto spesso questi familiari attuano delle modalità che non sono utili al miglioramento del paziente!
Spesso dicono, in buona fede:
“dai, hai tanti motivi per essere felice!”,
“serve la forza di volontà!”,
“è tutto nella tua testa!”.

Io dico sempre: se una persona sta camminando con difficoltà e un’altra persona per aiutarlo inizia a spingerlo in avanti o a tirarlo, la persona cade.

Nel primo colloquio familiare spiego cos’è oggettivamente e scientificamente la depressione, quindi inquadrando:
Fattori biologici (vedi il video, tratto da una puntata televisiva condotta dal collega dott. Varotto)



Schemi di pensiero: la persona depressa ha un modo di pensare particolare caratterizzato da distorsioni cognitive, cito quali a mio parere clinico sono basilari:

Confronto con il passato: la persona depressa pensa sempre al passato, confrontandolo con il presente, e non vedendo più un futuro. Per quanto tempo nelle prime sedute il paziente lamenta “Non sono più come prima …”, “Doveva vedermi l’anno scorso com’ero diverso”. La persona depressa è come si trovasse in un limbo di attesa, tra un passato ricordato come positivo e un futuro che non c’è … La persona depressa è molto legata al se stesso del passato, e non riesce a vedere quali cambiamenti importanti e positivi può fare per se stessa.

Generalizzazione: il dolore che prova lo trasporta in ogni ambito delle propria vita, anche in quello dove potrebbe trovare soddisfazioni e dove le avrebbe tutt’ora (esempio: “Mia moglie in realtà non mi ama, mi compatisce perché sono un fallito”, “Gli amici vengono a trovarmi solo perché faccio pena”, “La promozione al lavoro me la diedero senza crederci davvero”).

Egocentrismo negativo: “è tutta colpa mia”, “non servo più a niente”. La persona depressa generalmente vive sentimenti di senso di colpa. Lamenta di non essere più come prima, oppure di far star male le persone a lei vicine. Possiamo immaginare che peso si stanno mettendo sulle spalle. La persona depressa si assume tante colpe, in primis con se stessa: vorrebbe essere diversa da com’è, ma non ci riesce … quindi si sente in colpa.

Pretesa di standard elevati: molte persone perfezionistiche possono diventare depresse. Quando l’immagine di sé non corrisponde all’immagine ideale può avvenire la crisi.

Perché sottolineo l’importanza del colloquio familiare?

Per aiutare davvero la persona depressa e allo stesso tempo i familiari.

È utile spiegare le varie cause della depressione e i processi di pensiero che la mantengono cosicché:

– Il paziente non si senta più in colpa. Bisogna far capire alla persona che sì, in questo momento dominano degli schemi di pensiero non utili e a livello neurochimico ci sono delle problematiche, ma che ci sono molte altre risorse che si possono riattivare.

– I familiari non diano, in buona fede, tutta la responsabilità al loro caro e che non assecondino alcune idee del paziente. Ad esempio: quando il paziente in casa dice “non valgo più niente”, è inutile rispondergli “ma cosa dici! Ti ricordi come sorridevi una volta … dai che se ti impegni tra poco sarai come prima!”. La persona depressa necessità sì di una vicinanza dei familiari/partner/amici ma diversa dal solito. Quando una persona diventa depressa vuol dire che bisogna lavorare, in terapia, perché emergano altre parti di quella persona!
Circa l’importanza di una giusta informazione durante la cura, riporto in seguito un articolo apparso sul Corriere della Sera nell’ottobre 2014: La sindrome della porta girevole.

Nella psicoterapia individuale, sia nei casi gravi di depressione che nei casi di distimia, seguo il protocollo di cura del dott. Yapko, terapeuta noto a livello internazionale per il trattamento della depressione. Il lavoro individuale avrà l’obiettivo, passo dopo passo, di modificare gli schemi di pensiero negativi della persona per portarla a vivere esperienze positive dove sentirà di sentirsi attivo e dove potrà sentirsi in grado di immaginarsi nel futuro.

Dott. De Tomi


Come rendere INFELICI voi stessi e la vostra relazione di coppia

Ecco alcuni modi per rendere se stessi e una relazione coppia ansiosa e infelice:

La coppia infelice

La coppia infelice

1) Poni sempre la Verità al di sopra di tutto.

2) Ricordati sempre che c’è qualcuno o qualche coppia, là fuori, più felice, in forma, in gamba, abile, ricca, che fa più sesso ed è più in sintonia col proprio partner di te.

3) Rifletti spesso su “Come sarebbe stato essere …”.

4) Sii ipercritico: tutte le critiche, comprese quelle costruttive, sono l’ideale per aiutare il tuo partner a migliorare.

5) Pretendi che il tuo partner sia esattamente come te. Tu e il tuo partner dovreste avere gli stessi gusti,interessi, bisogni, amicizie. Se il partner dovesse deviare dal punto 5 ricordagli che il tuo modo è l’unico possibile .

6) Non fare progetti da fidanzatini: la passione che nasce spontanea all’inizio della relazione scompare nei mesi successivi. In ogni fase di vita della coppia ci sono cose da fare e cose da non fare più.

7) Quando sei arrabbiato usa per quanto possibile la seconda persona. Evita di dire come ti senti e descrivi azioni per te frustranti del tuo partner, es: “Tu fai sempre”, o la variante “Tu non sei mai …”. Ricordati: il tuo obiettivo è mantenere accesa la lotta per il potere e un livello di intimità adeguatamente basso.

8) Quando devi litigare colpisci la persona, non i contenuti … ci sarà sempre qualcosa che non va nel tuo partner.

– Se vuoi sapere alcuni punti fondamentali per una buona comunicazione di coppia guarda il video:



Disturbi d’ansia: cosa sono? La terapia conversazionale per rinforzare la persona e la terapia ipnotica per creare nuove esperienze riparative

Disturbi d’ansia e… terapia

Come tratto il problema dell’ansia?

 Sappiamo tutti cos’è l’ ansia, perché l’abbiamo sperimentata. Tecnicamente viene definita come anticipazione apprensiva di un pericolo o di un evento negativo futuro, accompagnata da sentimenti di disforia o da sintomi fisici di tensione.

Ansia

Ansia

Si sa anche che un po’ di ansia è normale, poi però ci sono persone che ne soffrono quotidianamente (disturbo d’ansia generalizzata), altre che hanno delle crisi acute chiamate attacchi di panico, altri ancora ne soffrono in alcuni ambienti (fobia sociale, ansia scolare), altri ancora devono tenere tutto controllo per evitare un eccesso di ansia (disturbo ossessivo compulsivo).

 In questo breve intervento intendo mostrare a livello clinico e pratico ciò che ho visto e che continuo a vedere con le persone che mi chiedono aiuto per problematiche di ansia, poi anticiperò brevemente come lavoro.

Nella pratica clinica ho scoperto quanto utile sia modificare l’idea dell’ansia che ogni paziente ha. Cosa vuol dire?

Le persone in terapia con me arrivano come primo passo alla consapevolezza che l’ansia ci avverte sempre che qualcosa non va, va intesa come un messaggio che noi stessi ci diamo. Oltretutto, fondamentale, con i pazienti cerco sempre di evitare che parlino di “ansia”o di altre terminologie tecniche, ma cerco che loro stessi già nelle prime sedute modifichino il termine con “paura”, perché?

Dire “ho ansia” fa pensare a qualcosa di pervasivo e di incontrollabile (ed è vero che a volte ci sentiamo così!), come se “cascasse dal cielo”, mentre dire “ho paura” fa già pensare a un oggetto di paura! “Ho paura di”. Quindi è possibile aiutare la persona a vedere che l’ansia deriva dalla paura di qualcosa che non si riesce ad affrontare ma che si vorrebbe affrontare! L’ansia è una grande amica che sa le nostre debolezze, quindi ci avvisa!

Cos’è la terapia allora?

 Il lavoro clinico sarà un lavoro di ritrovamento dell’autostima, della certezza di poter affrontare le situazioni nel “qui ed ora” di ogni istante della vita.

Come tutti sanno, quando c’è paura la sensazione è di attesa per il futuro: “Cosa succederà se faccio così? Cosa faccio? Andrà bene?”. Ma un’altra fondamentale domanda che ci facciamo senza saperlo quando siamo in ansia in realtà è “Vado bene? Sono in grado di affrontare la vita? Valgo?”. Questa è la domanda essenziale, esistenziale: “Valgo?”

Il lavoro che si farà con la persona sarà quindi quello di capire esattamente di cosa ha paura, dei motivi per cui non utilizza altre modalità per far fronte ai problemi, indagare dove ha imparato a svalutarsi e sostenere la persona nel momento difficile aiutandola a trovare nuove soluzioni tramite interventi conversazionali e tecniche attive come l’ipnosi.

Due tecniche

Tecnica della sedia vuota: tra le tecniche ho sempre trovato molto utile la cosiddetta tecnica esperienziale ipnotica cosiddetta della “sedia vuota”, attraverso cui la persona personifica il sintomo e potrà farà varie scoperte … tra cui il senso di potere e di controllo la persona può avere sul problema e come può ridurlo fino ad eliminarlo.

Tecnica ipnotica: noi siamo le esperienze che abbiamo vissuto. Questo concetto è fondamentale nel processo terapeutico che attuo con i colleghi di Modelli di Cambiamento. Cosa vuol dire? Significa che nel passato ci possono esser stati episodi che abbiamo affrontato male, che ci hanno fatto paura o ansia. Successivamente poi accade che ritrovandosi in una situazione simile a quella del passato la persona può iniziare a provare dei sintomi simili al passato. Volendo fare un esempio classico: la persona che va in ansia quando deve parlare in pubblico. Solitamente una persona così ha vissuto male nel passato un episodio simile, solitamente durante l’infanzia. La persona quindi poi quando si ritrova, anche dopo anni, a dover parlare in pubblico si attiva nel cervello la stessa modalità che si attivò nel passato! Il problema poi è che l’ansia si rinforza di giorno in giorno se non elaborata.

Attraverso l’ipnosi la persona potrà sperimentare il primo episodio di ansia ma in modo differente! Così facendo il suo cervello imparerà a non aver più ansia o paura in situazioni simili. Questo nuovo apprendimento è possibile proprio perché la persona si trova in uno Stato Modificato di Coscienza. Quando si parla di Stato Modificato di Coscienza (ovvero lo stato di trance ipnotica) s’intende semplicemente che la persona prova sensazioni differenti ricordando il passato. Esempio: quando si è al lavoro si è concentrati giusto? Quando invece si è in vacanza in spiaggia si è più rilassati, esatto? Ecco, in spiaggia e al lavoro siamo sempre noi stessi, ma in uno stato di coscienza diverso!

 Dott. De Tomi

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Cosa vuol dire fare una terapia di coppia? La scoperta dell’autenticità, parte seconda

Cosa vuol dire fare una terapia di coppia?

Mi prendo cura di

Parte seconda, idee

Vorrei qui proporre varie idee che mi nascevano scrivendo la prima parte dell’articolo sulla  terapia di coppia: 

 Ammettiamo che la coppia possa scoppiare in terapia?

 È sempre possibile una conciliazione, una mediazione? I membri della coppia chiedono una terapia per star meglio o per dar ragione alle proprie idee (Nella pratica ho visto varie coppie e il tema di ogni primo colloquio era: “Lui/lei è sbagliato/a” oppure “Non comunichiamo, perché lui/lei è sbagliato/a”) ? Stando dalla parte del terapeuta anch’io spesso mi chiedo se la coppia rimarrà “insieme” o se si separerà nel corso dei colloqui.

Mi chiedo quanti terapisti appena ricevono una richiesta di consulenza di coppia si chiedono quali siano i propri obiettivi più inconsci, le proprie premesse alla terapia di coppia … infondo nel gergo comune quando parliamo di terapia s’intende la cura, no?

Cosa vuol dire curare una coppia? Se tra colleghi ci diciamo “curare la coppia” solitamente ci si guarda in modo strano, “curare? Si curano le malattie!”  Beh, però usiamo la parola terapia.

Allora possiamo dire che curiamo, che ci prendiamo cura, che ci “preoccupiamo” (dal latino: cura, preoccupazione) dell’autenticità di ciascun partner e delle comunicazioni tra di essi.

Forse allora non è una terapia di coppia ma una terapia della comunicazione e una terapia di ciascun partner?

 A volte capita che un compito del terapista sia quello di accompagnare una coppia che si sta separando, proprio perché è una richiesta della coppia.

Ricordando le parole di un grande terapeuta, Perls,  circa le relazioni tra le persone (che siano di coppia o di amicizia):

 “Non sono in questo mondo per esaudire le tue aspettative

come tu non sei in questo mondo per esaudire le mie.

Tu sei tu, ed io sono io,

e se per caso ci incontriamo, sarà bellissimo,

altrimenti, non ci sarà nulla da fare.”

Ho citato queste parole non per essere pessimista o per incoraggiare un certo egocentrismo, ma per ricordare a me come terapeuta, ai colleghi, e alle persone che arrivano in terapie per problemi di relazione  la necessità di far fluire la conversazione in terapia, di meravigliarsi dei possibili sviluppi anche imprevedibili, di rispettare l’autenticità di ciascuna persona, e di non partire con idee a priori circa il futuro della terapia e della coppia. Allora la terapia di coppia è anche una scoperta di se stessi, una scoperta di come ci relazioniamo con gli altri, specie con una persona molto vicina.

  Dott. Matteo De Tomi

 


Cosa vuol dire fare una terapia di coppia? Parte prima

Cos’è la terapia di coppia?

 Parlare di terapia della coppia ha un valenza molto importante, infatti vuol dire lavorare su terapia-di-coppia-legnago-243problematiche della relazione, non della singola persona. La stragrande maggioranza delle coppie arriva in terapia con l’idea radicata che il problema è l’altro (“Non mi capisce, sta sempre zitto/a, è geloso/a”) e, espressamente o implicitamente, chiede al terapeuta di “cambiare” il partner. La trappola in cui cade la persona che chiede al terapeuta di modificare l’altro, però non farà altro che rafforzare la persona accusata di essere “sbagliata” (sì, in terapia di coppia si arriva, in certi casi, anche a negativizzare tutta la personalità dell’altro se questa non coincide con le aspettative dell’altro) … “Devi cambiare! Non vai bene così”, quanti sono cambiati quando gli è si è rivolta questa domanda? Come ci si sente?

 Ci sono vari modi di intendere la coppia, il modo forse più utile se vogliamo parlarne senza morale o preconcetti è intendere due persone, con due storie personali, insomma di due persone autentiche con le loro idee che s’incontrano in un dato momento della loro vita e decidono di condividere spazi, tempi, comunicazioni, affetti.

 Quando parlo di “storia personale” intendo un aspetto fondamentale, ovvero: tutti gli apprendimenti cognitivi ed emotivi costruiti fino a quel momento. Questi apprendimenti ci influenzano in maniera significativa, un esempio: perché ci sono persone gelose e altre meno gelose? Perché una persona tende ad arrabbiarsi di meno rispetto ad un’altra per un evento simile? Questo lo spiega moltissimo la storia personale, che è diversa in ognuno di noi. Ognuno di noi, tramite le relazioni in famiglia, con gli amici, con gli insegnanti, ha imparato a rispondere in un certo modo agli eventi e a vederli in un certo particolar modo.

 Ora, nella coppia, data l’intimità e la frequentazione è ovvio che le due storie possono “scontrarsi”: un atteggiamento del partner può attivare nell’altro fastidi che il primo partner nemmeno si sognava di attivare (gli esempi sono pressoché infiniti). Ricordo di una coppia dove, durante le vacanze il marito non portava mai anche la valigia della moglie, per la moglie questo era un segno di maleducazione, ma analizzando la storia del marito venne fuori, ingenuamente, che nella propria famiglia di origine e nelle sue idee un gesto simile voleva dir sminuire la donna, perché la propria madre aveva sempre sognato un’indipendenza mai realizzata. Da quel momento in poi il marito iniziò tranquillamente ad aiutare la moglie con i bagagli.  Questo cosa vuol dire? Che se non si comunica sul problema, o se non si va a fondo si rimane anche per anni con un silenzioso rancore.  

Tutto il rapporto di coppia si  basa sulla comunicazione, che non vuol dire solo “tesoro, ora dobbiamo parlare”, ma vuol dire capire che ogni cosa che facciamo o diciamo è un messaggio per l’altro, e sarà utile in terapia scoprire come si è soliti comunicare e cosa è possibile cambiare per capirsi meglio

Quali funzioni ha il terapeuta?

Il terapeuta è un “allenatore” della coppia. Aiuta i membri della coppia ad esprimere la propria autenticità attivando parti di discussioni che la coppia normalmente forse non tratterebbe. Il terapeuta rende sicura l’area, quindi le persone potranno discutere e mettersi alla prova.

Il terapeuta è un elemento neutrale: non prenderà mai le parti di ciascun membro della coppia, evidenzierà le modalità comunicative dei partner, e proporrà (implicitamente ed esplicitamente) nuove modalità comunicative più utili alla coppia

Qual è lo scopo della terapia?

 Lo scopo lo decide la coppia. Certamente andare in terapia non vuol dire che il terapista farà di tutto perché la coppia rimanga unita. Scopo della terapia per il terapista è dare spazio di interazione, permettere alle persone di esprimere la loro autenticità e mettersi alla prova nella condivisione

        Seconda parte dell’articolo: la scoperta dell’autenticità